Album di jazz che hanno scosso il mondo: Gli anni 70

Il concerto di Colonia

Jarrett (p). Rec. 1975

Jarrett irruppe sulla scena internazionale del jazz come parte del pionieristico Charles Lloyd Quartet degli ultimi anni ’60, passò a dirigere il proprio trio, si unì brevemente alle zuppe voodoo elettroniche di Miles Davis dei primi anni ’70, poi si ritirò alla musica acustica e a un riesame di ciò che stava cercando di raggiungere nella sua musica. Questo portò a una sorta di eclissi temporanea del suo profilo nella prima metà degli anni ’70, anche se la sua creatività continuò a diversificarsi e ad approfondirsi. Abile nei recital solistici (il suo Facing You per la ECM nel 1970 fu un forte presagio), iniziò una serie di recital in-concerto per l’etichetta di Manfred Eicher che attirarono consensi e un crescente interesse del pubblico, ma nessuno era preparato a ciò che accadde a The Köln Concert quando apparve. Una lunga serie di improvvisazioni intensamente ritmiche che diventarono ipnotiche e ripetibili all’infinito sui giradischi di tutto il mondo, l’album divenne un bestseller travolgente grazie al passaparola, sfuggendo rapidamente ai confini della comunità degli ascoltatori di jazz e diffondendosi nei salotti di persone che non avevano mai ascoltato, e tanto meno posseduto, un altro album di jazz. Questo rimane il caso di Jarrett e del disco, che non è solo una svolta jazzistica a sé stante ma uno dei dischi più venduti del genere. (KS)

Mahavishnu Orchestra

John McLaughlin (g), Jerry Goodman (vln), Jan Hammer (key), Rick Laird (b) e Billy Cobham (d). Rec. 1972

Formata nel 1971, la Mahavishnu Orchestra originale rimane il più grande successo del chitarrista John McLaughlin. Ha illuminato il cielo notturno per quasi due anni, tutto veniva suonato a 500 miglia all’ora con i Marshall a undici. Ha lasciato il pubblico in soggezione, poi improvvisamente è sparito. McLaughlin ridefinì il ruolo della chitarra nel jazz, Cobham la batteria e la band stabilì nuovi standard nella coesione dell’ensemble. Lo fecero senza sembrare banali, un trucco che la loro legione di seguaci non ha mai capito. Vendettero anche album in numeri pop e suonarono in stadi rock da arena. Persino loro non si resero conto di quanto fossero grandi fino a quando non fu tutto finito. (SN)

Herbie Hancock

Herbie Hancock (ky), Bennie Maupin (sax, fl, b cl), Paul Jackson (b), Harvey Mason (d) e Bill Summers (perc). Rec. 1973

Può essere stato jazz-rock dopo Bitches Brew, ma dopo Head Hunters il jazz-funk era il gusto del momento. Ispirato da ‘Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin)’ di Sly and the Family Stone, c’è persino una traccia tributo chiamata ‘Sly’. L’uscita ha rappresentato un’inversione a U di proporzioni spettacolari dalla direzione più esoterica tracciata su Crossings e Sextant a un album mirato esattamente alla pista da ballo, che è dove ha fatto centro. ‘Chameleon’, il singolo estratto dall’album (un successo anche per Maynard Ferguson), sfrecciò nella classifica di Billboard fino al numero 13 e ne fece uno degli album jazz più venduti di tutti i tempi. (SN)

Weather Report

Joe Zawinul (ky), Wayne Shorter (ts, ss), Jaco Pastorius (b), Alex Acuña (d) e Manolo Badrena (perc). Rec. 1976

A volte, quando si ascoltano i Weather Report al loro meglio, e questo è uno dei loro migliori, vale la pena darsi un pizzicotto per ricordarsi che nel loro cuore, questa band comprendeva una delle configurazioni jazz più elementari. Semplicemente, sassofono, piano, basso, batteria e percussioni. Poi, ascolta “Birdland”, più tardi coverizzata dai Manhattan Transfer e da Maynard Ferguson, e stupisciti. Ascolta la spinta che Pastorius dà alla band, specialmente nelle sue composizioni “Havona” e “Teen Town”. Raggiungendo il numero 30 nella classifica degli album di Billboard, ancora oggi Heavy Weather rimane stupefacente nel suo effetto complessivo come il giorno in cui fu realizzato. (SN)

Bright Size Life

Pat Metheny (g), Jaco Pastorius (b) e Bob Moses (d). Rec. 1975

La prima fioritura del grande talento di Metheny come artista discografico a sé stante avvenne con questo splendido trio che guidò mentre insegnava alla Berklee School of Music e faceva parte del gruppo di Gary Burton dell’epoca. In questa fase della carriera (aveva 21 anni) Metheny ha assecondato Pastorius facendo capriole sul palco e facendo salti mortali all’indietro dalla cassa acustica, e questa miscela di esuberanza di Pastorius e intensità di Metheny, moderata dal gusto impeccabile di Bob Moses, conferisce una freschezza a questo album che lo fa sembrare come se fosse stato registrato ieri. (SN)

Afric Pepperbird

Jan Garbarek (ts, fl), Terje Rypdal (g), Arild Andersen (b) e Jon Christensen (d). Rec. 1970

Dal brano di apertura ‘Scarabee’, il mondo del jazz al di fuori della Scandinavia fu introdotto ad una sensibilità nordica nel jazz, il Nordic Tone. Intensità, significato e spazio sono essenziali per comprendere quello che è probabilmente l’approccio più incompreso all’improvvisazione jazz. Garbarek combina l’intensità di Albert Ayler e l’economia di Dexter Gordon, ma li reinscrive con allusioni folcloristiche nordiche, per produrre, nelle parole del produttore Manfred Eicher, “un’alternativa all’approccio americano al jazz”, un approccio che lui sostiene ancora oggi. (SN)

Return To Forever

Corea (el p), Joe Farrell (f, ss), Stanley Clarke (el b), Airto Moreira (d, perc) e Flora Purim (v). Rec. 1972

Quando fece questa data, Corea si era fatto strada attraverso una pesante fase avanguardista per arrivare alle pianure soleggiate della sua immaginazione musicale a base latina. Era sempre stato presente nella sua musica, ma ora, sposando lo slancio e l’allegria di Flora Purim e Airto con le sue inclinazioni naturalmente esuberanti e melodicamente edificanti, Corea improvvisamente non solo fece un passo avanti oltre la cupezza stentorea e il machismo degli altri fonditori dell’epoca, ma ridefinì esattamente ciò che il latin jazz dovrebbe essere. La musica inebriante suonata da maestri rende questa una pietra miliare che definisce l’epoca. (KS)

The Audience With Betty Carter

Betty Carter (v), John Hicks (p), Curtis Lundy (b) e Kenny Washington (d). Rec. 1979

Ascoltare questo album è un’esperienza catartica. ‘Sounds’ è un tour de force di scat attraverso tempi e metri mutevoli che dura 25 minuti dove ad un certo punto, Carter, Hicks, Lundy e Washington suonano ognuno in un metro diverso. Il punto culminante dell’album è “My Favorite Things” presa ad un tempo vivace con Hicks al suo più esplosivo mentre il suo accompagnamento fiorisce in una contro linea con il canto di Carter e dalla coda chi può dire se predomina la voce o il piano? Dire che questo è uno dei migliori album vocali jazz mai realizzati è limitativo; è uno dei grandi album jazz contemporanei. (SN)

Tales Of The Algonquin

John Surman (bs, ss), John Warren (bs, f), Mike Osborne (as, cl), Alan Skidmore (ts, fl), Kenny Wheeler, Harry Beckett (t, flhn), John Taylor (p), Barre Phillips, Harry Miller (b), Alan Jackson e Stu Martin (d). Rec. 1971

Quanto l’album del canadese John Warren quanto quello del collega baritono John Surman, questo disco diceva che Surman era una stella in ascesa. Tanti album di jazz britannico potrebbero riempire questo spazio, ma questo ottiene il voto per il suo estatico, esuberante gioco di Surman e compagnia e per l’incredibile, stimolante scrittura di Warren. Questo è stato un glorioso testamento della ritrovata fiducia nel jazz britannico. Il successo di Warren sta nel modo in cui rimane all’interno della tradizione delle big band ma la estende incorporando elementi di free playing, potenti poliritmi e complesse stratificazioni delle sue risorse strumentali. Una gioia assoluta e indiscutibile. (DH)

I colori di Chloë

Weber (b, violoncello, ocarina), Rainer Bruninghaus (p, syn), Ack van Rooyen (flhn), Peter Giger, Ralf Hübner (d, perc), e i violoncelli della Südfunk Orchestra Stuttgart. Rec. 1973

L’album di debutto di Eberhard Weber fu uno dei più significativi colpi di apertura dell’arrivo della ECM nel mondo del jazz come arbitro del gusto moderno. Completamente privo di qualsiasi americanismo alla moda dell’epoca, la sua musica era piena di luce e colore derivati dalla tradizione classica e cinematografica modernista europea. Come tale, offriva una piscina completamente fresca di delizie in cui pescare. Usando la sua sinuosa tecnica del basso per articolare la melodia come nessun altro aveva fatto prima, Weber alternava un supporto d’archi sontuosamente severo con piccoli schemi di tastiere e percussioni per un enorme effetto atmosferico. Entusiasmante. (KS)

Music Improvisation Company

Jamie Muir (perc), Hugh Davies (elec), Evan Parker (ss), Derek Bailey (el g) e Christine Jeffrey (v).
Rec. Agosto 1970

Il MIC rappresenta il punto di separazione tra il free jazz e la free improv. Dalla loro prospettiva, tutta una serie di traiettorie sono visibili – nel caso di Evan Parker l’uso di live electronics e la crescente dipendenza dal soprano che porta infine all’Electro-Acoustic Ensemble. Segna uno spostamento dalla creazione di potenti, enormi edifici sonori o di forme e texture che imitano la natura per un viaggio, con solo una piccola esagerazione, nel DNA del suono stesso. Meno interessato al globale o al cosmico, MIC ha esplorato il micro-universo attraverso il concetto di improvvisazione non diplomatica. Strano, inquietante ma stranamente attraente.(DH)

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