Molti oggi pensano all’Illuminismo del XVIII secolo come a un’entusiasmante stagione della ragione, un momento da cigno nero in cui fluirono nuove energie, quando il mondo della prima modernità cominciò ad essere messo a soqquadro, grazie agli impavidi critici del potere, dell’orgoglio e del pregiudizio, che improvvisamente pensavano diversamente, immaginavano un nuovo audace futuro e chiamavano i loro concittadini a premere con forza per fare della ragione una realtà.
L’interpretazione è purtroppo troppo semplice. La verità è che lo sconvolgimento intellettuale che venne tardivamente chiamato Illuminismo (la frase era un neologismo del XIX secolo, tipicamente diffuso dai suoi nemici) fu in realtà un affare molto più complicato. Storici, filosofi e pensatori politici ci hanno insegnato a vedere questo sconvolgimento del XVIII secolo in modi meno Whiggish, meno sanguigni. I trattamenti magniloquenti dell'”Illuminismo” – mi viene in mente The Enlightenment and Why It Still Matters di Anthony Pagden (2013), così come le recenti difese zampillanti di A.C. Grayling di Bacone, Hobbes e Locke e altri primi luminari in The Age of Genius (2016) – sono abbastanza fuori moda, e per buone ragioni.
La maggior parte degli analisti del cosiddetto Illuminismo oggi preferisce considerarlo come illuminazioni multiple, come varie tendenze intellettuali e letterarie incentrate su molti temi diversi, con effetti positivi e negativi. Prendiamo alcuni esempi. Theodor Adorno, Max Horkheimer e Michel Foucault ci hanno sfidato molto tempo fa a vedere che il feticcio settecentesco della ‘ragione’, la sua volontà di sapere tutto e di misurare e dominare il mondo, ha alimentato lo spirito della ‘irragionevolezza’ burocratica, dell’incarcerazione e del dominio totalitario. Isaiah Berlin ci ha ricordato che gli oppositori dell’Illuminismo, soprannominati il ‘Contro-illuminismo’, includevano pensatori, poeti, pittori e scrittori che plausibilmente difendevano il pluralismo, dubitavano del parlare di ‘natura’ e attaccavano la cieca fiducia nel progresso scientifico, in effetti perché vedevano il mondo come modellato non dalle leggi della natura, ma dalle contingenze della storia. Poi c’è l’erudita serie di libri influenti di Jonathan Israel, che ha dimostrato più recentemente che quello che finora è stato chiamato Illuminismo in realtà conteneva non solo filoni multipli e contrastanti. Secondo lui, i veri campioni dell'”illuminismo”, quelli che favorirono l’estensione dei diritti civili, la giustizia sociale e la rappresentanza democratica, erano in realtà solo una minoranza, una frazione importante ma assediata di un movimento molto più ampio e autocontraddittorio che non aveva alcuna unità essenziale di principio o di scopo.
Israel ha colto nel segno, e dovrebbe essere ulteriormente sviluppato, per cogliere una svolta impressionante nel lavoro dei radicali illuministi: la loro acuta consapevolezza della disgrazia, della privazione e dell’infelicità sofferta da persone schiacciate da istituzioni non di loro scelta. I ribelli disprezzavano la miseria. Hanno decantato il pessimismo dei miserabilisti in mezzo a loro. La miseria era il loro obiettivo intellettuale e politico. Presero la mira, inizialmente salvando la vecchia parola francese miserie (originariamente tratta dal latino miseria, da miser, “miserabile” e miserari, compatire) in modo da costruire per i loro contemporanei una nuova lingua in cui comprendere diversamente la miseria. Grazie a loro, potremmo dire, la miseria ebbe finalmente il suo nome proprio. La fame, l’indegnità e l’infelicità furono denunciate come inutili piaghe sulla faccia del mondo. La miseria non era più considerata come data da Dio, o come parte dell’ordine naturale delle cose. Era vista come contingente, rimediabile, per esempio attraverso generosi cambiamenti del cuore e della mente, sostenuti da dure riforme sociali, legali e politiche, anche per mezzo di una rivoluzione, se necessario.
Thomas Paine fu probabilmente uno dei più grandi campioni illuministi di questo nuovo modo di pensare la miseria. Autore dei tre libri più venduti del diciottesimo e dell’inizio del diciannovesimo secolo, Common Sense (1776), Rights of Man (1791) e The Age of Reason (1794), Paine è ancora oggi il più grande campione inglese di un governo pulito, aperto e umile. Dovrebbe essere ricordato per la sua lunga devozione alla causa della libertà per tutti; la sua irriducibile opposizione alla menzogna; la sua profonda avversione alla monarchia e alla tirannia sacerdotale e i suoi audaci attacchi pubblici all’ipocrisia e all’arroganza dei rivoluzionari americani e francesi. Più convincente di tutto era il desiderio ardente di Paine di incontrare gli argomenti dei suoi nemici, non con la polvere da sparo o la spada, o con l’altera amarezza, ma con le parole di Isaia:
Per la sua audacia ragionata, Paine fu costretto a soffrire più della sua parte di miseria personale: esilio forzato dalla sua nativa Inghilterra; un periodo in una prigione di Parigi e un incontro con la ghigliottina; e un abuso mediatico pugnace da parte dei suoi nemici. I suoi nemici erano uno strano gruppo. C’erano i sostenitori parruccati e incipriati del lunatico re Giorgio II, i terroristi giacobini e i beceri settari cristiani in America. Tutti loro cercarono in tutti i modi di dannarlo e farlo sparire, per esempio etichettandolo come un “piccolo ateo schifoso” (Teddy Roosevelt), o parlando contro la sua grammatica marcia e la sua presunta confabulazione (George Chalmers, il suo petulante primo biografo, ululò che aveva aggiunto falsamente una “e” al suo cognome).
Lo scopo in ogni caso era di spingere Paine in un vicolo di topi, dove non sopravvissero nemmeno le sue ossa. Le sue ossa infatti sono scomparse. Ma anche se Paine non trovò un luogo di riposo definitivo, grazie ai suoi amici e sostenitori sopravvissero i ricordi dei suoi scontri politici, a cominciare dal primo scorcio letterario che abbiamo di lui, uno scoraggiante epitaffio per un corvo domestico, che egli seppellì nel giardino della sua casa di Thetford:
Qui giace il corpo di John Crow,
che una volta era alto ma ora è basso;
Tutti i fratelli Crows stiano in guardia,
perché come si sale, così si deve cadere.
Come vi alzate, così dovete cadere: con queste parole, scritte quando aveva solo otto anni, il ragazzo di Norfolk ha segnalato il suo disprezzo per tutta la vita per la pomposità e l’arroganza. In un’epoca di governi corrotti alimentati da sinecure, Paine era abbastanza coraggioso da chiamare Giorgio III “re o pazzia”, persino da concludere una lettera al ministro dell’Interno: “Io sono, signor Dundas, Non il vostro umile e obbediente servitore”. Con stile sbuffante, Paine fece una satira sugli effetti corruttivi di un potere pubblicamente irresponsabile. Fece tutto il possibile per prevenire l’abuso dei diritti dei cittadini da parte dei ricchi e dei potenti. Scagliò la sua penna contro la pietà della guerra, i mercati sfrenati e le banche avide. Paine denunciò tutte le forme di religione organizzata come “nient’altro che invenzioni umane create per terrorizzare e rendere schiava l’umanità, e monopolizzare il potere e il profitto”. Fece appello all’ospitalità e invitò i cittadini di tutto il mondo a mostrare una grande apertura di cuore verso il mondo, come nel famoso scambio con il suo amico Benjamin Franklin. ‘Dove c’è la libertà, lì c’è il mio paese’, avrebbe detto Franklin. ‘Dove non c’è la libertà, c’è il mio paese’, disse Paine in risposta.
Paine stava dicendo che la cittadinanza di qualsiasi paese implica il dovere dei cittadini di interessarsi ovunque alle disgrazie degli altri. Paine era contro la miseria ovunque, in ogni forma. La sua visione illuminata del 18° secolo di una vita decente per tutti rimane rilevante. Non solo il suo rifiuto di principio del dispotismo politico e dell’ingiustizia sociale era più ampio (diciamo) di quello di Karl Marx. Le proposte pratiche di Paine riuscivano a combinare una visione mozzafiato, un umile rispetto per la gente comune e un sobrio riconoscimento della complessità degli affari umani. Paine era per un governo forte ed efficace, ma anche per un governo di portata limitata e strettamente responsabile nei confronti dei suoi cittadini. Sosteneva la sfrenata libertà di riunione ed espressione pubblica, ma non il suo abuso licenzioso. Era a favore della proprietà privata e della concorrenza di mercato, ma combatteva per il principio del reddito di base garantito ai cittadini e per altre misure pubbliche finanziate dalle tasse per prevenire la crudele divisione della società in ricchi e poveri.
La Giustizia Agraria (pubblicata per la prima volta in francese nel 1795) amplifica questi temi; è tra i suoi più potenti squilli di tromba contro la miseria. Scritto in risposta a un sermone del buon vescovo di Llandaff che lodava la divisione tra ricchi e poveri come un segno della saggezza di Dio, il notevole trattato di Paine si rivolgeva alla classe dei nouveaux riches che allora emergeva come elemento dominante nella Francia post-giacobina. Notate i paralleli con oggi. In contrasto con la dittatura giacobina, che aveva predicato l’austerità, i nuovi termidoriani (diceva Paine) avevano scoperto le libertà private, mescolate ai piaceri del mercato. La società civile era rinata, ma il ritorno al laissez-faire la divideva in ricchi e poveri. La crescente disuguaglianza Paine la considerava vergognosa, e paragonava la divisione tra poveri e ricchi a “corpi morti e vivi incatenati insieme”. Ma contro gli apologeti della povertà, insistette che il problema era rimediabile. La povertà non è la volontà di Dio, sosteneva. È una piaga artificiale, prodotta dall’uomo. È sbagliato dire che Dio ha creato ricchi e poveri”, scriveva Paine, “ha creato solo maschi e femmine e ha dato loro la terra come eredità”.
Questo principio che la terra è ‘la proprietà comune della razza umana’ implicava che i ricchi possidenti avevano l’obbligo di aiutare i poveri, non solo con la carità, ma accettando un sistema di tasse di successione amministrato dal governo progettato per ridistribuire ed equalizzare il reddito. Nell’invitare gli altri a fare la storia della povertà, Paine non disse cosa si sarebbe fatto con i proprietari recalcitranti e le loro famiglie che si rifiutavano di riconoscere il diritto di proprietà comune, e tanto meno di pagare la loro parte di tasse di successione; il problema degli scioperi dei ricchi contro le politiche redistributive doveva essere affrontato dai riformatori sociali successivi. Paine abbozzò invece un piano per la creazione di un Fondo Nazionale dal quale ogni uomo e donna che raggiungesse i ventuno anni di età avrebbe avuto diritto a un pagamento compensativo una tantum di quindici sterline, mentre ogni persona che raggiungesse i cinquant’anni avrebbe ricevuto una pensione annuale da cittadino di dieci sterline. Sottolineò che i pagamenti sarebbero stati basati su un principio etico decisivo e duraturo. Quando si dirà in qualsiasi paese del mondo: “I miei poveri sono felici; non c’è ignoranza né angoscia tra loro; le mie prigioni sono vuote di prigionieri, le mie strade di mendicanti; gli anziani non sono in miseria, le tasse non sono oppressive; il mondo razionale è mio amico, perché io sono amico della sua felicità”. Quando si potranno dire queste cose”, scrisse Paine, “allora quel paese potrà vantarsi della sua costituzione e del suo governo”.
Quale paese sul nostro pianeta soddisfa oggi questa prova?